25 Aprile 2024 18:24

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25 Aprile 2024 18:24

Una vita al servizio degli altri: dalla Sierra Leone alla Diciotti l’imperiese Virginia Ravera si racconta:”Vivo emozioni forti, cercando di fare del mio meglio”/La storia

In breve: Amante dei viaggi e della scoperta di culture nuove fin dalla tenera età, Virginia, dopo l'agognata laurea in Medicina nel 2017, ha deciso di dedicare un anno della propria vita a nuove esperienze.
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Entrare in contatto con culture diverse, correre in aiuto di persone in difficoltà fisica, psicologica, affettiva, provando a non farsi sopraffare dall’emozione e, a volte, dallo sgomento per situazioni tragiche, ammirare la bellezze di luoghi meravigliosi e incontaminati.

Tutto questo, e molto altro, fa parte delle esperienze vissute dalla giovane Virginia Ravera, 27enne, di Taggia, laureata in Medicina e Chirurgia a Genova, affamata di conoscenza e desiderosa di contribuire a rendere il mondo un posto migliore.

Virginia Ravera, giovane medico imperiese in giro per il mondo

Amante dei viaggi e della scoperta di culture nuove fin dalla tenera età, Virginia, dopo l’agognata laurea in Medicina nel 2017, ha deciso di dedicare un anno della propria vita a nuove esperienze, mettendosi alla prova sia come medico, ma soprattutto come persona.

“Ho sempre avuto la passione per il viaggio, per le lingue e per le culture diverse – spiega Virginia – gli anni di studio sono stati molto impegnativi e così ho dovuto mettere un po’ da parte i viaggi. Dopo la laurea, nel 2017, ho subito ricominciato a viaggiare per piacere personale all’avventura. Sono andata in Sudamerica 2 mesi zaino in spalla, dalla Colombia al Cile all’Argentina. Oltre a questo, sono stata in Ghana a lavorare per un mese in ospedale”.

Il 2018, però, è stato un anno molto particolare, perché?

“Tutti si aspettavano che avrei seguito il “classico” percorso, ovvero affrontare i test per la specializzazione. Io però avevo troppi progetti in sospeso, perciò ho stupito tutti e ho deciso di dedicare un anno ai viaggi e alle esperienze. In totale, sono stata 123 giorni intorno al mondo, prendendo 20 voli aerei. In particolare, oltre a viaggi di piacere, ho trascorso un mese a bordo della nave “Peluso”, per un progetto di salvataggio dei migranti in mare, e più di 2 mesi in Sierra Leone per assistere i minori in difficoltà”. 

Com’è andata sulla nave “Peluso”?

“Non è andata come mi sarei aspettata, anche se è stata comunque un’esperienza formativa. Prima di imbarcarmi sulla Peluso, dove sono stata per tutto ottobre, sono stata tre giorni sulla Diciotti, ferma in porto per lavori.

Sulla Peluso ho partecipato a un progetto della Guardia Costiera in collaborazione con l‘Ordine dei Medici di Malta, per il salvataggio e il primo soccorso in mare di migranti.

Ero partita con la speranza di partecipare a tanti salvataggi come medico, ma, a causa delle politiche del Ministro Salvini, il flusso dei migranti si è interrotto e non ci sono stati sbarchi nel mese in cui ero a bordo. Il problema è che i migranti partono lo stesso e provano a raggiungere Spagna, Portogallo, Grecia. Non si può pensare di risolvere un problema lavandosene le mani, è come pensare di chiudere un fiume alla foce: dalla sorgente l’acqua continuerà a uscire e troverà altri corsi.

In ogni caso, l’esperienza sulla nave è stata lo stesso molto interessante dal punto di vista personale. Abbiamo girato tutto il Mediterraneo e abbiamo coordinato le navi per la bonifica del mare quando c’è stato il terribile sversamento di oli a causa della collisione di due navi.

Ho conosciuto il mondo navale e militare, la vita dell’equipaggio. Ho imparato tantissime cose e ho ascoltato storie molto interessanti.

Subito dopo essere tornata dalla nave Peluso, sono partita per la Sierra Leone”. 

Come mai proprio in Sierra Leone?

“Ci sono stata molte volte perchè mio padre, Roberto Ravera, ha fondato l’onlus Fhm Italia, ma non mi ero mai fermata più di 2 o 3 settimane. Questa volta, ci sono stata più di due mesi per immergermi completamente nel progetto, entrare in contatto più profondo con le persone del posto, imparare meglio la lingua.

L’associazione si occupa della tutela dei minori da 0 12 anni, in un centro di accoglienza a Freetown, la capitale, e anche nei carceri minorili con ragazzi che stanno attendendo condanna o che stanno scontando la pena. In entrambi i casi il nostro intervento è prevalentemente sociale. Tutti i dipendenti sono locali, sierraleonesi, assistenti sociali, a cui abbiamo insegnato rudimenti di medicina, assistenza sanitaria, prevenzione. Spesso pratiche che per noi sono conoscenze base, lì salvano le vite. La cultura del posto infatti è molto diversa, legata spesso a culti animistici, con riferimenti a stregoni e maledizioni.

Il centro a Freetown è un centro di accoglienza di minori, bambini di strada, spesso abusati fisicamente, mentalmente, sessualmente. Sfruttati nel lavoro minorile, trascurati, non ricevono giuste attenzioni sanitarie, economiche, sociali e affettive. Con loro abbiamo un processo di accoglienza che dipende dalla situazione, con la possibilità di affidarli a un altro componente della famiglia o a famiglie affidatarie locali. Alcuni rimangono da noi mesi o anni. Il grande occhio che abbiamo è quello delle disabilità mentali, poiché in Sierra Leone le malattie mentali sono etichettate come possessioni demoniache”.

Ti è capitato di batterti per qualche caso in particolare?

“Molte volte, ma credo che il caso che più mi è rimasto nel cuore è quello di “Monday”, una bambina che abbiamo al centro da alcuni anni. Non si sa esattamente quanti anni abbia perché è stata abbandonata e non è in grado di esprimersi, può averne tra 6 e 9. Mi sono mossa in tutti i modi per cercare una famiglia affidataria e mi sono affezionata davvero tanto a lei. È stato molto emozionante.

Facevamo le spedizioni notturne per cercare bambini soli, costretti a vendere fazzoletti in piena notte o in altre situazioni disperate. È stata un’esperienza molto forte, perché mi sono resa conto che ci sono tantissimi minorenni che non sono tutelati da nessuno, se non ci fossimo noi o altre poche associazioni presenti. Inoltre, per i ragazzini da 13 anni in su la situazione è ancora più drammatica, perché non ce ne possiamo occupare. In un’occasione, siamo andati al distretto della polizia per richiedere che un ufficiale ci accompagnasse e ho assistito a una scena sconvolgente. C’era una ragazza di 15 anni che si trovava al distretto da 3 giorni, presa dalla polizia perché vagava per la strada da sola, abbandonata. Non avendo nessuno e non potendo essere presa in carico da associazioni come la nostra, è rimasta lì, senza lavarsi, senza un posto dove andare”.

Sono tutte esperienze molto forti, come le hai vissute?

“Provavo emozioni con una grande intensità, nel bene (quando riuscivo a ottenere delle soddisfazioni) e nel male (quando assistevo a episodi sconvolgenti). Mentre ero là non potevo lasciarmi troppo andare, sia perché non sarebbe stato utile, sia perché per loro sono situazioni all’ordine del giorno. 

Allo stesso tempo, da quando sono tornata a casa, mi sono resa conto che, quando provo a raccontare quello che ho vissuto, le persone non riescono a comprendere fino in fondo cosa significhi. Quindi, in conclusione, mi sento in un limbo, in una terra di mezzo dove nessuno mi possa davvero comprendere, a meno che non incontri qualcuno che abbia vissuto le mie stesse esperienze. 

In ogni caso, tutte queste avventure mi spingono a continuare su questa strada. Tornerò presto in Sierra Leone, dove c’è l’idea di ampliare il progetto, per creare un centro diagnostico e terapeutico di accoglienza per bambini e famiglie, dove poter essere seguiti più con calma.

Amo quello che faccio e spero di crescere sia come medico che come persona”.

 

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