25 Aprile 2024 12:39

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25 Aprile 2024 12:39

Imperia: “Noi, infermiere del reparto Covid-19”. Tra i corridoi dell’Ospedale, dove si combatte il Coronavirus. “Disumano morire da soli”

In breve: Da 50 giorni in prima linea nella lotta contro il Covid-19, all'interno dell'Area Respiratoria 1 dell'Ospedale di Imperia, allestita appositamente per affrontare l'emergenza sanitaria in corso.

“C’è un episodio che mi ha profondamente toccato e non scorderò mai. Un paziente era in condizioni critiche. Siamo riusciti a farlo parlare con i suoi cari attraverso una videochiamata. È stato molto doloroso, sapeva di essere in fin di vita. Aveva molta paura”. Sono parole che pesano come macigni quelle di Daniela Odasso, infermiera imperiese 46enne, da 50 giorni in prima linea nella lotta contro il Covid-19, all’interno dell’Area Respiratoria 1 dell’Ospedale di Imperia, allestita appositamente per affrontare l’emergenza sanitaria in corso.

Coronavirus: la testimonianza dal reparto imperiese

Daniela e la collega Marina Pedemonte hanno deciso di raccontare ciò vivono sulla loro pelle ogni giorno, da quando varcano la soglia del reparto dedicato ai pazienti affetti da Coronavirus, a quando lo lasciano, dai momenti più duri a quelli che fanno intravedere speranza.

Una testimonianza preziosa che mostra come sia importante rispettare le misure di protezione per contenere la diffusione del virus e che fa apprezzare ancora di più il grande servizio di coloro che lavorano in tutti i settori essenziali.

Com’è iniziato tutto?

“Io e la mia collega Marina abbiamo iniziato questa esperienza insieme dall’inizio di marzo, da quando è stato istituita l‘Area Respiratoria 1 al posto del reparto di Nefrologia dell’Ospedale di Imperia – racconta Daniela a ImperiaPost – Abbiamo dovuto ripristinare tutto il reparto, dai letti al materiale necessario, per renderlo adatto allo scopo. Ci sono 14 letti più un posto letto per l’eventualità che un paziente venga intubato, di cui si occupa un infermiere del reparto Rianimazione.

Vi preoccupava questo nuovo reparto?

Sì, eravamo preoccupate perché era tutto sconosciuto. Noi veniamo dal reparto Day Surgery, una realtà completamente diversa. Ma anche per tutti gli altri si trattava di qualcosa di mai visto prima. 

I primi giorni, in particolare, è stato traumatico. Bisognava abituarsi ai ritmi molto pesanti, all’inizio stando anche 8 ore senza poter andare in bagno o a bere, per via di tutti i dispositivi di protezione che abbiamo addosso. Poi siamo riusciti a organizzarci meglio.

Inizialmente è stata proprio Marina, la mia collega, a fare da referente, prodigandosi nel lavoro e riuscendo a organizzare le forze per affrontare l’emergenza. Il primario del reparto era il dott. De Michelis, ora è a Sanremo, dove è stata trasferita Pneumologia. Ci ha sempre sostenuto, dandoci tanta forza.

Adesso abbiamo come caposala Giorgio Gugole, che ci comprende molto ed è presente anche a livello psicologico.

Come vi preparate prima di entrare in reparto?

C’è una lunga vestizione. Abbiamo due mascherine, una sanitaria e una chirurgica sopra, la cuffia, gli occhiali, doppio paio di guanti, il camice e i calzari. È tutto monouso. La mascherina dura 8 ore, i camici capita che li cambiamo anche più volte durante il turno e i guanti sopra li sostituiamo a ogni contatto con i pazienti, per evitare il contagio all’interno del reparto stesso. 

Qual è l’aspetto più difficile da affrontare nel reparto?

Sicuramente il lato umano. Ciò che caratterizza i ricoveri, oltre al bisogno di cure e di assistenza infermieristica, è la solitudine dei pazienti. Per evitare il contagio, come si sa, i parenti non possono vedere i loro cari e quindi noi rappresentiamo l’unico contatto umano per loro. È capitato, purtroppo tante volte, che siamo stati gli ultimi ad accompagnarli nel momento della morte. Ogni giorno è una battaglia.

Nella mia esperienza ho lavorato anche in Medicina e quindi mi era già capitato di essere presente nel momento del decesso dei pazienti, ma questa situazione è completamente diversa. I familiari non sono presenti e quindi siamo noi a stargli vicino per alleviare la solitudine.

Ha vissuto momenti di particolare intensità?

Sì, molti. In particolare, c’è un episodio che mi ha profondamente toccato e non scorderò mai. Un paziente era in condizioni critiche. Siamo riusciti a farlo parlare con i suoi cari attraverso una videochiamata. È stato molto doloroso, sapeva di essere in fin di vita. Aveva molta paura. E’ stato il suo ultimo saluto a chi voleva bene, è morto poco dopo. Io ero presente. È stata un’esperienza che mi ha segnato per diversi giorni, ma poi sono riuscita a reagire.

Ci sono stati tanti decessi ed è bruttissimo che non possano vedere i loro cari, che non ci possa essere il funerale. È quasi disumano. È difficile affrontare un lutto in questa situazione. Credo che anche i parenti delle vittime abbiano bisogno di grande supporto.

Un altro momento che mi ha toccato è stato il ricovero di un medico in pensione che conoscevamo sia io sia la mia collega. Era stato il nostro insegnante e aveva anche lavorato con noi. Vederlo entrare in reparto è stato molto forte e mi auguro che si possa riprendere presto.

C’è stato anche un’altra occasione che mi ha colpito, quando è mancata una signora venuta da una casa di riposo. La figlia le aveva scritto una lettera e ce l’ha consegnata per mettergliela sotto il cuscino. Un gesto per sentirsi vicino e per accompagnarla anche durante la preparazione in camera mortuaria.

Bisogna dire che la tecnologia aiuta molto. Chi sa usare i cellulari si tiene in contatto con le persone caro con messaggi e videochiamate. 

Bei momenti?

I bei momenti sono numerosi. È stato molto emozionante vedere una donna che non si reggeva in piedi riuscire a camminare con il girello e gioire per la sua grande forza di volontà. Grande felicità per la dimissione di due medici perché guariti, così come tutte le volte che qualcuno poteva tornare a casa. Momenti che rimarranno sempre nel cuore.

Cosa accomuna i pazienti nella malattia?

Cioè che accomuna i pazienti solitamente è la febbre molto alta, ma la malattia si manifesta in modi diversi. Il problema più frequente è la sofferenza respiratoria e quindi si ha necessità di ossigeno. C’è chi è colpito a livello gastrointestinale. C’è stata una donna che ha avuto una sofferenza neurologica.

Ci sono state ondate di ricoveri?

All’inizio il reparto era sempre pieno, i 14 posti letto tutti occupati, con attese di ingressi in pronto soccorso. Aspettavamo di spostare dei pazienti a Sanremo per poter far entrare gli altri. Sono state settimane durissime.

Adesso fortunatamente sono diminuiti un po’, ma speriamo che non ci siano altre ondate.

L’età dei pazienti è di età miste, specialmente dai 70 in su, ma sono arrivati anche più giovani. C’è stata anche un’ondata di persone tra i 30 e i 40, anche se le loro condizioni erano meno preoccupanti. I pazienti intubati vengono di volta in volta trasferiti a Sanremo appena possibile.

Com’è cambiata la sua vita fuori dal lavoro?

Sicuramente il lavoro non finisce quando si esce dal reparto. C’è sempre la paura di portare il virus alla famiglia. Noi usiamo tutti i presidi necessari e tutte le precauzioni previste, quindi sono molto tranquilla, ma il timore rimane sempre, è inevitabile.

Come vede la possibilità della “Fase 2”?

Purtroppo abbiamo potuto osservare, sia io che le mie colleghe, che da quando si è iniziato a parlare della possibilità della “fase 2”, le persone hanno già iniziato ad abbassare la guardia e a uscire molto di più. Vedo troppe persone in giro rispetto a prima, spesso anche senza mascherina. Ho il timore che si stia sottovalutando l’emergenza prima ancora che sia finita.

Se allentiamo le misure senza seguire le regole in maniera seria rischiamo delle ricadute. Siamo preoccupati non solo a livello lavorativo, ma anche a livello umano.

Dobbiamo capire che sarà un’estate diversa da quelle a cui siamo abituati. Dovremo utilizzare i presidi di protezione e mantenere le distanze di sicurezza. Sarà così finchè non troveremo un vaccino.

Cosa vi dà la forza di continuare a lavorare con tanta determinazione?

La prima fonte di forza sono proprio i nostri pazienti. Apprezzano moltissimo il nostro lavoro e ce lo fanno capire anche solo con un sorriso. Non tutti sono in condizione critica, per fortuna. Molti sono lucidi e si instaura un rapporto.

Mentre all’inizio eravamo spaventati per la novità della situazione, andando avanti siamo cresciuti e abbiamo acquisito sempre più sicurezza. 

Credo molto nel mio lavoro e lo amo. Il segreto è quello. Nonostante i momenti di stanchezza e sconforto, prevale sempre la volontà di portare a termine il proprio compito”.

 

 

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