26 Aprile 2024 04:42

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26 Aprile 2024 04:42

Imperia: migrante ucciso a coltellate, chiesta la condanna a 23 anni e 6 mesi di carcere. L’imputato in aula: “Non volevo ucciderlo, mi sono rovinato la vita”

In breve: Il processo è stato rinviato al prossimo 18 gennaio 2023 per la sentenza.

23 anni e 6 mesi di carcere. Questa la richiesta di condanna avanzata oggi dal PM Luca Scorza Azzarrà in Tribunale a Imperia, davanti alla Corte d’Assise (presidente Carlo Indellicati, Antonio Romano a latere) nell’ambito del processo per l’omicidio di Kissmill, migrante sudanese, avvenuto a Ventimiglia il 26 novembre 2021.

Sul banco degli imputati Mohammed Alfadel, 32 anni, sudanese, difeso dall’avvocato Stefania Abbagnano.

Imperia: migrante ucciso, al processo per omicidio i testimoni della difesa

L’udienza odierna si è aperta con l’audizione del dott. Roberto Ravera. Ravera, infatti, ha redatto una relazione psichiatrica sul giovane sudanese dopo due colloqui, a seguito della quale la legale della difesa ne ha chiesto l’acquisizione, oltre a una perizia psichiatrica, per valutare la capacità dell’imputato di stare a giudizio.

Al termine dell’audizione, l’avvocato della difesa ha confermato la richiesta di effettuare una perizia psichiatrica e ha chiesto di sentire un testimone che conosceva sia l’imputato sia la vittima, mentre il PM ha respinto la richiesta della perizia sostenendo che nella deposizione Ravera ha negato la presenza di alterazioni psicologiche e problemi psichiatrici dell’imputato.

Dopo un breve ritiro, il Tribunale ha sciolto le riserve respingendo la richiesta della perizia psichiatrica.

Il processo è stato rinviato al prossimo 18 gennaio 2023 per la sentenza.

Roberto Ravera, primario psicologia Asl1 Imperiese

“Ho dovuto impiegare diverso tempo per capire la storia personale di Alfadel. Si tratta di un soggetto depresso, con difficoltà cognitive. Dalla sua storia sono emerse situazioni di abbandono. E’ stato abbandonato dai genitori, il padre si è risposato, ha 4 mogli. E’ stato cresciuto un po’ dalla sorella, un po’ dalla zia. E’ stato vittima di violenze, picchiato con un cavo elettrico. A 8 anni vendeva acqua per strada per potersi mantenere.

Si tratta di un soggetto che mai ha sviluppato capacità di mettersi in relazione con gli altri. Una persona isolata, con grande difficoltà nello sviluppare relazioni. E’ affetto da quello che noi chiamiamo post traumatic stress disorder, ovvero molti episodi di violenza hanno influito sulla persona che è oggi. Si è sposato a 17 anni, ha avuto una figlia due anni dopo, con cui non ha nessun contatto. E’ un mussulmano praticante, cresciuto in Sudan, dove gran parte degli eventi viene attribuita alla volontà di Dio.

Stato mentale? Lui ha vissuto gli ultimi anni della sua vita, dal 2017, in Italia. Non ha costruito nulla. Vivere sotto un ponte ha esasperato le sue condizioni psichiche. E’ una persona che non sente alcuna appartenenza, qualcuno a cui fare riferimento. Per un soggetto come lui questo porta a uno stato di primitività. Come? Proteggendo il suo contesto minimo di sopravvivenza.

Quanto ha inciso questa sua condizione? Le persone che vivono in una specie di bolla antropologia e culturale tendono ad avere un comportamento passivo, tranne quando esplodono in comportamenti incontrollabili. O per deliri di persecuzione, non è il suo caso, oppure per una controreazione  a qualcosa che si subisce o si percepisce di subire. La disfunzione nel controllo degli impulsi è un tratto caratteristico di questi soggetti. C’è poi un altro aspetto importante, l’invisibilità. Un soggetto come lui, con una cultura come la sua, ha sofferto l’invisibilità di questi anni, sotto un ponte, in condizioni di deprivazione.

Con le esperienze passate che ha avuto, certamente per Alfadel è stato molto difficile vivere in un mondo come il nostro. Non è riuscito a inserirsi.

Con Alfadel ho avuto due incontri abbastanza approfonditi, per diverse ore. Mi ha mostrato le cicatrici delle violenze subite. Non credo che possa mentire su questi episodi. Lui in carcere dice di stare bene, è paradossale, ma ha trovato la sua dimensione in carcere. Pur a fronte di un vissuto difficile, non ho riscontrato patologie psichiatriche evidenti. Ha parlato dell’episodio dell’omicidio dispiacendosi”.

Spontanee dichiarazioni dell’imputato Mohammed Alfadel

“Ero a Ventimiglia dal 2017. Dormivo da solo, sotto il ponte. In una tenda che avevo costruito io. Non avevo problemi con nessuno. Volevo vivere in pace e trovare lavoro in Italia per aiutare la mia famiglia in Sudan. Dove vivono mia madre, le mie sorelle, i miei fratelli e la mia unica figlia, di 9 anni. Kissmill rubava bici, rubava alcolici e nascondeva tutto dove abitavo io, perché abitavamo vicini. Non ero contento di quello che faceva. Glielo avevo detto che non mi piaceva, ma non mi ha mai ascoltato. Era colpevole anche di traffico di esseri umani. Una volta ha preso il mio telefono e lo usò per questo, per questi traffici. Non ero contento, era molto impaurito. Se la Polizia lo avesse preso mi sarei trovato nei guai per colpa sua. Io non volevo problemi, ma vivere in pace, lontano dai guai.

Il giorno dell’omicidio non avevo in mente niente. Non trovavo il telefono, ero preoccupato. Perché il mio telefono era l’unico mezzo con cui potevo avere contatti con la famiglia. Senza ero disperato, isolato. Avevo paura di perdere i numeri, così sono andato a cercare Kissmill. Sono andato per cercare chi aveva rubato il mio telefono. Sono andato a cercarlo sotto il ponte, ma non l’ho trovato. Poi sono andato alla stazione dei treni, ma non l’ho trovato. Poi ancora sotto il ponte, e l’ho trovato. Gli ho chiesto ‘dov’è il mio telefono? ‘Non ce l’ho’ mi ha risposto e mi ha aggredito. Ho cercato di difendermi, perché era più grosso di me. Si è chinato per prendere  qualcosa da terra per picchiarmi. Impaurito ho tirato fuori un piccolo coltello dalla mia tasca. C’era buio, non vedevo niente. Dopo averlo colpito, l’ho lasciato vivo, in piedi, e sono andato a cercare il mio telefono da un’altra persona. Quando sono tornato da Kissmill l’ho trovato morto.

Sono stato sorpreso di averlo trovato morto. Il telefono l’ho trovato nelle sue tasche. Non volevo ammazzarlo, volevo solo il mio telefono. Mi dispiace di aver rovinato la mia vita. Non voglio perdere la mia famiglia. Non sapevo di averlo ammazzato”.

Pm Luca Scorza Azzarrà

“Giunge al momento conclusivo questo processo per un fatto tragico avvenuto il 26 novembre 2021 all’esito del quale un giovane migrante ha tolto la vita a un coetaneo per una motivazione davvero impalpabile. L’istruttoria ha permesso di acquisire elementi inconfutabili, al di là della confessione dello stesso imputato. Questa conclusione così certa e chiara la dobbiamo ad una attività investigativa svolta in maniera solerte e efficace da parte delle varie articolazioni della Compagnia dei Carabinieri di Ventimiglia e dei Carabinieri provinciali di Imperia. Hanno assicurato fonti di prova e testimoni in tempi celeri. Nelle ore immediatamente successive al ritrovamento del cadavere era già stato ricostruito in maniera precisa l’accaduto. I testimoni sono stati sentiti in sede di incidente probatorio, cristallizzando così le prove. Ci sono due testimoni oculari del delitto e una precisa ricostruzione delle condotte antecedenti e successive ai fatti.

La vittima è stata uccisa con sette coltellate. Al torace, all’addome, al dorso, alla zona lombare. Un’aggressione durata un minuto, feroce. Lo sappiamo dai testimoni oculari.

Una dinamica diversa da quella raccontata dall’imputato, che racconta di aver reagito in seguito a un’aggressione. L’imputato ha raccontato anche di una attività illecita della vittima. Un elemento mai emerso prima e addirittura è stato detto che in una occasione il telefono sarebbe stato rubato per finalità illecite da parte della vittima. Mi sono occupato per anni di reato legati all’immigrazione clandestina e non ho mai trovato qualcuno che sottraesse un telefono per organizzare attività illegali.

Da quello riferito dai testimoni, però, era l’imputato, Alfadel, che usava il telefono per organizzare un traffico di esseri umani. La vittima e l’imputato, per altro, ci è stato riferito che si sono ubriacati insieme la sera prima, smentendo rapporti difficili tra i due. Il telefono non era stato rubato, ma lo aveva la vittima in quanto lo aveva raccolto dopo che era caduto dalla tasca dell’imputato la sera prima, quando quest’ultimo era ubriaco.

Un’altra testimonianza ci racconta che l’imputato, dopo essersi ripreso il telefono dalla tasca della vittima, l’avrebbe presa a calci.

Non c’è nessun dubbio sulla ricostruzione e sull’esecuzione materiale evento. E’ certamente l’odierno imputato ad aver accoltellato la vittima. Si è tentato di adombrare l’incapacità di intendere e volere dell’imputato, una pratica che nei processi per omicidio sta diventando una consuetudine. In realtà il racconto dell’imputato è logico e coerente. E’ un soggetto che da quando si accorge che gli manca il cellulare si dimostra sempre lucido e consapevole. Ha l’obiettivo di recuperarlo, anche in maniera feroce. Dimostra sempre coerenza. Dopo l’omicidio viene a sapere che ci sono i Carabinieri sul luogo dei fatti. Sa di essere ricercato e si consegna ai Carabinieri, ricostruendo in maniera precisa l’accaduto. Ha sempre fornito versioni credibili. Non si comprende su che basi si possa pensare a un vizio di mente.

Ha colpito sette volte una vittima in condizioni di minorata difesa, perché ubriaca. Lo ha colpito per ammazzarlo. Indicative sono le regioni del corpo attinte, in zone dove sono presenti organi vitali. C’era una precisa volontà omicidiaria. Si è cercato di descrivere l’imputato come una persona disagiata, ma anche tutte le altre persone sono nella stessa situazione. Il cellulare aveva sì un valore, ma non per parlare con i familiari, piuttosto per organizzare il trasferimento di migranti in Francia illegalmente.

Il motivo del gesto, estremo, non solo è futile, ma potrebbe essere anche abietto. Per recuperare uno strumento utilizzato per finalità illecite, ovvero guadagnare su una situazione disagiata di altri soggetti. Non c’è alcun dubbio sulla sussistenza del dolo dell’omicidio. Va riconosciuto altresì il valore di essersi consegnato ai Carabinieri e di aver risposto all’interrogatorio, ammettendo le proprie responsabilità. Un gesto che dà atto della consapevolezza dell’atto compiuto. Chiedo dunque di concedere attenuanti generiche, equivalenti all’aggravante contestata e di condannare l’imputato a 23 anni e 6 mesi di reclusione”.

Avvocato difesa Stefania Abbagnano

“Non è stato un omicidio volontario, non per futili motivi, con l’attenuante della provocazione. Alfadel si è costruito una capanna, l’unica presente, e questo sta a dimostrare che cercava una normalità in una situazione che di normale non ha nulla. I colpi non sono stati sferrati per uccidere. È stata una casualità, ha colpito al buio. La lama, di 4-6 cm, non è entrata nella sua interezza in nessuna delle ferite trovate sul corpo della vittima. Di 8 ferite, solo una è risultata letale. L’obiettivo di Alfadel era di allontanare la vittima, l’evento morte non era voluto.

Il cellulare era il suo cuore, il suo contatto con la famiglia. Senza il cellulare si sentiva perso, perchè sul dispositivo aveva memorizzati tutti numeri dei suoi cari. Pensate che sino a che la sottoscritta non gli ha consegnato la rubrica estrapolata dal cellulare, ovvero dopo 8 mesi dai fatti, non ha potuto chiamare casa.

Ha agito con ira, perché provocato. Non è stato un omicidio voluto. E’ stata la conseguenza di concause disgraziate.

Concludo reiterando l’istanza di una perizia psichiatrica e, in via principale chiedo di derubricare il reato da omicidio volontario a omicidio preterintenzionale. E di escludere l’aggravante dei futili motivi, con l’attenuante della provocazione, concedendo il minimo della pena”.

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